Università Tor Vergata, il silenzio che umilia

Scritto il 08/07/2025

Un caso quello del Policlinico di Tor Vergata di Roma che interroga etica, diritto e cultura istituzionale. Un paradosso tutto italiano che riguarda un chirurgo, professore dell’Università Tor Vergata di Roma e una sua collega avvenuto durante un intervento chirurgico nel giugno scorso. Il professor Giuseppe Sica, come denunciato dalla vittima e secondo quanto riportato dai testimoni che avrebbero ripreso l’accaduto , avrebbe offeso e colpito con un pugno una sua collaboratrice, la dottoressa Marzia Franceschilli.  Qualcuno registra con il cellulare e l’episodio fa il giro d’Italia.

Non è solo una vicenda personale o giudiziaria quella che riguarda il professor Sica. Ma rappresenta un caso e un comportamento che interrogano in profondità l’università pubblica nel suo complesso, in quanto luogo di sapere, responsabilità e comunità civile.

Nonostante la dottoressa denunci prontamente l’accaduto, a distanza di più di un mese, anche se l’Università ha istituito una Commissione per far luce sulla vicenda, non è stata presa alcuna decisione nei confronti del professore, che resta al suo posto.

Una dinamica che, pur nel pieno rispetto della presunzione d’innocenza, non può essere considerata neutra o irrilevante. L’unica risposta pronta e immediata è arrivata dalla Regione Lazio nella figura del presidente Francesco Rocca, che ha provveduto inviando una commissione ispettrice e a proporre alla dottoressa un trasferimento altrove, in quanto il contesto lavorativo inquinato da un’assenza di decisione, poteva costituire per lei un problema di permanenza all’interno della struttura. La dottoressa ha quindi optato per questa soluzione. Un kafkiano epilogo, ma tutto nostrano, in cui la vittima è costretta a scegliere di andare via a garanzia del suo benessere psico-fisico.

A seguito della vicenda, 204 professionisti del Policlinico Tor Vergata, tra cui medici, specializzandi e personale sanitario a vario titolo, hanno inviato una lettera alla Regione Lazio, all’Ordine dei Medici di Roma, al Rettorato dell’Ateneo e alla Direzione generale dell’ospedale, che mette in evidenza, sia per toni che per contenuti, la mancanza di provvedimenti e di trasparenza da parte del nosocomio e anche il fatto che ci sia il forte rischio che si capovolgano i ruoli di vittima e colpevole.

Duole sottolineare che il comportamento tenuto dal Policlinico, denota una serie di principi violati o disattesi, e ciascuno di questi riguarda non solo le norme, ma la qualità del vivere collettivo. Dal principio di tutela della parte più esposta, in quanto ogni amministrazione pubblica ha il dovere di proteggere chi si trova in posizione più fragile – per età, ruolo, vincoli contrattuali. L’università non fa certo eccezione. E nel momento in cui una lavoratrice si sente costretta a lasciare il proprio posto per “tutelarsi” e non esistono misure visibili nei confronti del docente accusato, la logica della protezione viene capovolta.

Questo rappresenta un segnale grave e diseducativo. Va, inoltre, considerato il principio di tempestività e imparzialità procedurale, che in questo caso è ancora disatteso mentre il quadro normativo è chiaro: D.Lgs. 81/2008, D.Lgs. 198/2006 e le linee guida ANAC e CIVIT sul pubblico impiego impongono misure preventive e disciplinari a tutela del benessere psicofisico del personale. Il ritardo o l’inerzia nel dare seguito a segnalazioni gravi non è compatibile con lo status di ente pubblico responsabile, e può ledere gravemente i diritti della persona che segnala.

In questa vicenda è venuto meno il principio etico dell’esemplarità pubblica: l’università quale comunità educante, di cultura e modello.  Che, inoltre, ai sensi di quanto previsto dall’art. 54 della Costituzione è luogo in cui i funzionari pubblici esercitano la loro funzione con disciplina e onore. Tutto ciò vale ancor più in ambito accademico, dove si formano i professionisti del domani. Tacere, minimizzare, posticipare, in questi casi, non è mai una risposta neutrale.

Sempre più spesso, e giustamente si parla di umanizzazione delle cure, del rapporto medico-paziente, della centralità della persona nei percorsi sanitari e accademici. Ma questo ideale non può esistere se non passa prima dalla dignità e dal benessere delle persone che lavorano e in cui viene meno il principio di umanizzazione del lavoro. Un ambiente percepito come ingiusto, squilibrato, impunito, mina alle radici ogni percorso di cura, insegnamento e crescita. Umanizzare significa formare, prevenire, ascoltare. Significa garantire un clima interno basato sul rispetto.

Questa brutta vicenda ci interroga anche su questo: quali strumenti ha oggi un’università per prevenire dinamiche di potere distorte?  Ciò che accade oggi a Tor Vergata parla a tutta la società e a noi tutti. La risposta a questa vicenda non può essere l’attesa silenziosa, ma la riattivazione piena della responsabilità pubblica: verso le persone, verso le norme, verso i valori di giustizia e cura.